L’errore che educa: il valore strategico dello sbagliare per diventare migliori
Viviamo in una cultura che esalta la performance, il risultato, la perfezione a ogni costo. Fin da piccoli impariamo, spesso in modo implicito, che sbagliare è qualcosa da evitare, da nascondere, da temere.
I voti a scuola, le reazioni dei genitori, le aspettative sociali costruiscono intorno all’errore un’aura di pericolo e vergogna. Eppure, paradossalmente, ogni crescita autentica, ogni apprendimento reale, ogni innovazione profonda nasce proprio da un errore, da una deviazione rispetto alla norma, da una caduta capace di mettere in discussione l’equilibrio precedente.
È proprio questa frizione tra l’atteso e l’accaduto che diventa terreno fertile per evolvere. L’errore, in realtà, non è il contrario del successo, ma una delle sue premesse. Non si cresce evitando l’errore, ma imparando a riconoscerlo, ad accoglierlo e a utilizzarlo in modo funzionale. È il modo in cui ci si rapporta allo sbaglio che fa la differenza tra un’esperienza sterile e una tappa evolutiva. Da questo punto di vista, sbagliare non è solo inevitabile: è necessario.
Nel modello di terapia breve strategica, come insegna il mio maestro Giorgio Nardone, per superare un blocco si analizza la sua logica, i tentativi di soluzione che il soggetto, seppur in modo fallimentare, mette in atto nel tentativo di superare il proprio problema. Spesso, è proprio grazie all’analisi di questi errori che si giunge alla soluzione. Allo stesso modo, l’errore può essere solo interpretato come una spia che segnala qualcosa che non funziona nel modo in cui si stanno affrontando le situazioni. Se, invece di evitarlo, si impara a leggerlo, esso diventa un alleato, un indicatore prezioso che guida verso un cambiamento più profondo.
Una delle psicotrappole più diffuse è quella del perfezionismo: il bisogno di non fallire mai, di non deludere, di essere sempre all’altezza delle aspettative proprie o altrui. Questo atteggiamento, sebbene spinto talvolta da buone intenzioni, diventa presto una gabbia che limita il potenziale, genera ansia e blocca la prestazione. Chi non tollera l’errore, evita il rischio.
E chi non rischia, resta fermo. Come osservava Carl Gustav Jung: «Chi evita l’errore, evita anche la vita». La paura di sbagliare inibisce la creatività, impedisce di imparare cose nuove, scoraggia dal mettersi alla prova. In fondo, se ci pensiamo, ciò che davvero ci ha fatto diventare più forti, più intelligenti, più maturi, raramente è stato un successo liscio e senza ostacoli. Piuttosto, sono stati gli inciampi, le contraddizioni, i momenti di confusione a costringerci a cambiare punto di vista, a interrogarci in profondità, a diventare più forti.
La crescita avviene spesso grazie alla crisi: un evento inaspettato, un errore ci spingono fuori dalla nostra zona di comfort. In quel momento, le risposte abituali non funzionano più. È lì che si apre uno spazio per il cambiamento.
Ma solo se siamo in grado di tollerare l’incertezza. Chi affronta l’errore come un apprendimento, lo trasforma in un trampolino di lancio. Chi lo vive come una condanna, invece, si irrigidisce, si chiude in difesa, si autoaccusa o accusa gli altri. La differenza non sta nell’errore in sé, ma nel modo in cui lo si gestisce.
Nell’ambito educativo, è fondamentale recuperare una cultura dell’errore intesa come tappa formativa. Insegnare ai ragazzi che sbagliare non significa essere inadeguati, ma essere in cammino. Offrire uno spazio in cui si possa sperimentare senza timore di giudizio. Costruire ambienti in cui l’errore venga discusso, analizzato, metabolizzato. Anche nel mondo del lavoro, la valorizzazione dell’errore dovrebbe diventare una prassi gestionale: i team più innovativi non sono quelli che non sbagliano mai, ma quelli che apprendono più rapidamente dai propri sbagli. Come affermava Thomas Edison: «Non ho fallito. Ho solo trovato 1000 modi che non funzionano». Questa visione restituisce dignità al processo dell’apprendere e lo libera dalla tirannia del risultato immediato.
Come suggerisce Paul Watzlawick: «Il problema non è il problema. Il problema è come si affronta il problema». Così anche l’errore, se affrontato in modo disfunzionale, diventa più invalidante del fatto in sé. Chi riesce a incorporare l’errore nella propria visione del mondo sviluppa una forma di resilienza attiva. Non si tratta solo di “resistere” alle difficoltà, ma di utilizzarle per diventare più efficaci. Per far ciò, serve il coraggio di accettare le proprie fragilità, la lucidità per analizzare ciò che non ha funzionato, la determinazione per provarci ancora. In questo senso, l’errore diventa parte integrante del processo di autorealizzazione. Come scrisse Samuel Beckett: Hai provato. Hai fallito. Non importa. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio. In conclusione, è tempo di rovesciare lo sguardo sull’errore. Non come ostacolo, ma come maestro. Non come inciampo, ma come passaggio. Non come difetto da nascondere, ma come risorsa da integrare. Imparare a sbagliare, e farlo bene, è forse l’arte più difficile e più necessaria che possiamo insegnare a noi stessi e agli altri. È attraverso l’errore che impariamo a cambiare strategia, a conoscere i nostri limiti, a superare ciò che sembrava insormontabile. È sbagliando che diventiamo, finalmente, umani. E, forse, migliori.
JG
Articolo pubblicato su SienaNews