Angoscia come presagio del nulla: l’incertezza dilagante in un mondo instabile

L’angoscia non è semplice paura. La paura ha un oggetto, un volto concreto: il pericolo imminente, la minaccia identificabile. L’angoscia, invece, è un vuoto che si spalanca prima ancora che il pericolo si delinei; è, come scriveva Søren Kierkegaard, “la vertigine della libertà”, la sensazione di trovarsi sospesi sull’orlo di un abisso che non si vede ma si intuisce. Dopo la lunga stagione del Covid-19, e nel pieno di un’epoca segnata da guerre, tensioni geopolitiche e fragilità strutturali dell’ordine internazionale, questa forma di angoscia sembra essersi diffusa come un’ombra collettiva, diventando il sentimento dominante di una generazione che aveva creduto, forse ingenuamente, nella stabilità del progresso.

Durante la pandemia il mondo ha conosciuto un’esperienza che fino a pochi anni prima appariva confinata alla letteratura distopica: confini chiusi, città deserte, il timore invisibile di un virus che attraversava corpi e continenti con la stessa rapidità delle nostre connessioni digitali. Per molti è stata la prima vera percezione che l’ordine sociale può vacillare, che il nostro quotidiano – lavoro, viaggi, relazioni – non è un terreno solido ma un fragile equilibrio. In quei mesi sospesi, l’angoscia si è insinuata non come paura del contagio – che poteva essere affrontata con mascherine e protocolli – ma come intuizione del nulla: la possibilità che la vita, improvvisamente, non abbia più le strutture di senso che la sorreggono.

Quando la pandemia ha iniziato a ritrarsi, ci si attendeva un ritorno alla normalità. Almeno così ci avevano promesso. Eppure, quasi senza tregua, si sono riaperte le faglie della geopolitica: conflitti regionali che hanno assunto dimensioni globali, un precario equilibrio internazionale in cui le alleanze si ridefiniscono e il futuro sembra sospeso su scacchiere instabili. Dalla guerra in Ucraina alle tensioni in Medio Oriente, fino alle frizioni economiche tra le grandi potenze, l’impressione di un ordine mondiale in perenne stato d’emergenza ha sostituito l’illusione di un “fine della storia”. L’angoscia, alimentata dalla pandemia, si è trasferita su un nuovo piano: non più il virus, ma l’assetto stesso delle relazioni tra Stati, la possibilità – sempre presente eppure inafferrabile – di una catastrofe globale, che sia nucleare, climatica o economica.

Da un punto di vista psicologico, questa angoscia ha caratteristiche peculiari. Non si tratta di ansia, non di sola paura e nemmeno di dolore. È piuttosto un sentimento diffuso, unix di paura e dolore, che permea la cultura e i discorsi pubblici, una sorta di “umore del tempo”, come lo avrebbe definito Martin Heidegger. In Essere e tempo, Heidegger osserva che “nell’angoscia il mondo si ritrae e l’ente nella sua totalità svanisce; rimane soltanto l’esserci nel suo poter-essere più proprio”. L’angoscia, cioè, rivela che l’essere umano è gettato in un mondo che non offre garanzie ultime: ci costringe a percepire l’assenza di fondamenti e, paradossalmente, ci restituisce alla nostra libertà più autentica. Non è un caso che molti, durante la pandemia e poi nel susseguirsi delle crisi geopolitiche, abbiano sperimentato una radicale messa in questione del proprio progetto di vita: scelte professionali rimandate, relazioni rivalutate, valori rimessi in discussione.

Questa angoscia non è solo un fatto individuale; ha un impatto strategico, sia sul piano delle società che delle relazioni internazionali. Una popolazione che vive in un clima di “presagio del nulla” tende a oscillare tra due reazioni: la paralisi o la ricerca spasmodica di sicurezza. La paralisi si traduce in apatia politica, disimpegno, perdita di fiducia nelle istituzioni. La ricerca di sicurezza, invece, può portare a rafforzare poteri autoritari, a giustificare limitazioni delle libertà in nome della protezione. La storia del Novecento insegna che i momenti di grande angoscia collettiva – crisi economiche, guerre mondiali, pandemie – sono anche i momenti in cui i regimi più forti emergono o si consolidano. Non sorprende che, a livello globale, molti governi abbiano fatto leva su questo sentimento per legittimare politiche di controllo più stringenti, dalla sorveglianza digitale a quella economica. L’angoscia, dunque, diventa carburante per le decisioni strategiche, orientando investimenti, politiche, ma anche guerre dell’informazione e campagne di disinformazione che sfruttano la vulnerabilità emotiva delle popolazioni.

Se guardiamo ai grandi attori geopolitici, vediamo come l’angoscia collettiva diventi strumento di potere. Da un lato, la narrazione di minacce costanti – terrorismo, pandemie, cyberattacchi – giustifica il rafforzamento delle capacità di controllo statale. Dall’altro, l’angoscia dei cittadini può essere manipolata da potenze ostili per destabilizzare le democrazie attraverso la propaganda, l’hackeraggio dell’opinione pubblica, l’amplificazione di divisioni interne. La “guerra cognitiva”, concetto sempre più presente nei documenti strategici delle alleanze militari, si fonda proprio su questo: l’utilizzo di informazioni, vere o false, per influenzare la percezione della realtà e alimentare l’insicurezza. In un mondo interconnesso, l’angoscia non è solo un effetto collaterale: diventa arma.

La sfida non può però essere eliminare l’angoscia – impresa impossibile – ma casomai trasformarla. Sul piano personale, questo implica ascoltare le nostre sensazioni, dialogare con noi stessi e con gli altri, attraversare il sentimento del nulla senza esserne annientati. Sul piano collettivo, significa costruire meccanismi di cooperazione internazionale che riducano l’imprevedibilità: istituzioni multilaterali capaci di gestire le emergenze, accordi di sicurezza condivisi, strategie globali. Più che rincorrere l’illusione di un controllo totale, si tratta di rafforzare la capacità di adattamento.

Da un punto di vista psicologico strategico, si possono pensare tre movimenti fondamentali. Primo: riconoscere l’angoscia, darle un nome, diventando noi stessi predatori, anziché prede. L’angoscia non è debolezza: è il segnale che la realtà ci chiede un salto di qualità. Secondo: elaborarla, non nel senso di dissolverla, ma di integrarla nella progettualità personale e politica. Terzo: trasformarla in azione creativa. L’angoscia può diventare il motore di nuove forme di cooperazione, di innovazione tecnologica orientata al bene comune, di rinnovamento culturale.

“L’uomo non è altro che ciò che fa di ciò che gli è stato fatto”, scriveva Sartre. Questa frase, letta oggi, risuona come un monito e una promessa: non possiamo impedire al nulla di affacciarsi, ma possiamo decidere come rispondere. La pandemia e le guerre ci hanno ricordato che la stabilità è un mito fragile; ma proprio in questa consapevolezza si apre la possibilità di una nuova maturità collettiva. L’angoscia, presagio del nulla, non è soltanto il sintomo di un’epoca in crisi: può essere anche la soglia di una trasformazione. L’angoscia ci espone al nulla, ma proprio per questo ci spinge a costruire qualcosa che abbia valore, nonostante – e forse grazie a – quell’abisso che intravediamo.

JG

Articolo pubblicato su SienaNews

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